Le riflessioni teoriche sul linguaggio ebbero origine quando cominciò a diffondersi nel mondo greco la cultura in forma scritta. La forma scritta rese più evidente la struttura e la concatenazione delle frasi e di conseguenza del ragionamento.
I primi filosofi si pongono il problema del fondamento del linguaggio, se esso è per “natura” o se frutto di una “convenzione”. Nel primo caso si prende in considerazione l’Etimologia, cioè lo studio che rivelando l’origine della parola, ossia la sua “radice”, ne determina il vero significato mettendo in luce la “realtà” alla quale il nome rimanda. Nel secondo caso invece, il linguaggio viene considerato come frutto di un accordo tra gli uomini.
“In generale, affermare che un’istituzione o un oggetto della vita umana sono naturali, significa fondarli su principi immutabili e sostenere quindi che non possono essere modificati dall’uomo. Al contrario, ciò che è convenzionale, in quanto dovuto ad un accorso tra gli uomini, può essere rinegoziato e modificato”. [1]
LA NASCITA DEL PENSIERO CON PARMENIDE E ERACLITO
I primi filosofi che affrontarono la questione del linguaggio furono Parmenide ed Eraclito.
Parmenide fa una distinzione tra lingua naturale e lingua convenzionale. Solo il linguaggio naturale garantisce la corrispondenza fra le parole e le cose in quanto solo la parola riflette l’Essere, al di fuori di essa, subentra l’opinione che è imposta per convenzione e descrive la realtà in maniera contraddittoria, come se essa fosse formata allo stesso tempo da Essere e Non Essere.
Eraclito concorda con Parmenide distinguendo il discorso vero da quello che esprime solo visioni parziali e soggettive degli uomini.
I SOFISTI, GORGIA E L’ESSERE INCOMUNICABILE
A contrapporsi alla loro visione sono i Sofisti, educatori e maestri di persuasione, essi sostengono che le lingue non sono naturali ma artificiali, frutto di un accordo tra le comunità, il linguaggio è autonomo dalla realtà e dal pensiero, la parola non esprime la realtà delle cose.
Si afferma con i Sofisti un nuovo ed autonomo campo di riflessione, una nuova disciplina, la linguistica, che si occupa della struttura e della teoria del linguaggio, della sua orthoépeia, correttezza.
I Sofisti, in particolare con Gorgia negano che ci possa essere un rapporto tra i nomi e le cose e che i nomi possano comunicare la conoscenza delle cose. Qualsiasi tesi può essere rovesciata attraverso il mezzo del discorso poiché pensiero, linguaggio e realtà sono su tre piani diversi. Gorgia, criticando Parmenide dice che l’essere, se anche esistesse, non sarebbe “pensabile” e neppure “dicibile”, sarebbe cioè incomunicabile, poiché diverso è il segno della comunicazione dal pensiero e dalla cosa (l’essere) che viene pensata.
“Poiché il mezzo con cui ci esprimiamo, è la parola; e la parola non è l’oggetto, ciò che è realmente; non dunque realtà esistente noi esprimiamo al nostro vicino, ma solo parola, che è altro dall’oggetto”.[1]
PLATONE E ARISTOTELE, IL LINGUAGGIO AL SERVIZIO DELLA VERITA’
Una svolta teorica viene rappresentata da Platone nella sua opera Cratilo. A dibattere sui vari punti di vista sono due filosofi, Ermogene e Cratilo, l’intermediario tra i due è Socrate che espone la sua teoria, che incarna quella di Platone. Ermogene sostiene la teoria della convenzionalità del linguaggio mentre Cratilo ritiene che esso sia naturale. I due concordano però che i nomi delle cose non siano arbitrari ma assegnati secondo logica e quindi del tutto corretti, anche se, Ermogene sostiene che tale correttezza derivi dall’assegnazione di precise regole mentre, per Cratilo essa avviene secondo la legge naturale. Socrate diverge da entrambe le affermazioni, critica l’eccessiva relativizzazione del linguaggio da parte di Ermogene, infatti la sua teoria presupporrebbe una lunga serie di linguaggi convenzionali che di per sé non potrebbero essere corretti, d’altro canto nei confronti di Cratilo, Socrate sostiene che, se è vero che i nomi rivelano la natura delle cose, non tutti hanno origine da imitazioni di elementi visivi o sonori, la sua teoria risulta troppo semplicistica. Platone dunque sostiene che le parole sono diverse dalle cose che designano, non essendo loro “somiglianti” non sono “naturali” ma hanno un rapporto con la realtà, cercano di dire come essa è ma sono soggette all’influenza del pensiero che può modificarle e correggerle per giungere ad esprimere un discorso vero che, essendo corretto, rappresenta la vera realtà delle cose.
PLATONE, CRATILO
SOCRATE: […] Quando noi, denominando, ci serviamo del nome come di uno strumento,
che cosa facciamo?
ERMOGENE: Non so che dire.
SOCRATE: Non insegniamo qualche cosa, gli uni agli altri, e non sceveriamo le cose,
come sono?
ERMOGENE: Certo.
SOCRATE Il nome dunque è come uno strumento didascalico dell’essenza
[…]. [Ma], se c’è discordia tra i nomi, […] con che mezzo potremo decidere, o
a che cosa ricorreremo? Non certo rivolgendoci ad altri nomi diversi da questi,
che non è possibile. Ed è chiaro che altre cose dovremo cercare al di fuori dei
nomi, le quali ci mostrano, senza i nomi, quali di codesti nomi sono i veri, e ci
indicheranno chiaramente la verità delle cose.
CRATILO Mi pare di sì. […]
SOCRATE Ora, con quale altro mezzo credi di potere imparare la realtà delle cose? Non
forse col mezzo che è appropriato e giustissimo, e cioè studiando gli enti,
confrontando essi stessi mediante loro stessi?[2]
IL PENSIERO DI ARISTOTELE
Aristotele affronta il tema del linguaggio non con opere specifiche come succede per Platone ma attraverso scritti di logica, estetica e retorica. Aristotele ritiene che il linguaggio verbale sia una creazione dell’uomo dovuta ad una convenzione istituzionale delle società umane e, se per Platone il nome era un delòma ossia una rivelazione, per Aristotele il nome non rivela alcunché, ha sì un significato, ma solo quello che convenzionalmente gli viene attribuito, se così non fosse la parola non significherebbe nulla. Supera anch’egli però come Platone la contrapposizione tra carattere naturale e convenzionale, introducendo tra la parola e la cosa, il concetto, la rappresentazione mentale che, essendo di natura mentale, costituisce il significato della parola.
Dunque, Aristotele sostiene la naturalità del concetto-cosa e la convenzionalità del rapporto parola-concetto poiché, mentre la rappresentazione mentale di un oggetto è uguale per tutti, le parole utilizzate per esprimere il concetto posso variare in ciascuno.
Aristotele rifiuta l’idea di una scienza universale come Platone, egli distingue infatti fra princìpi propri di ogni singola scienza, princìpi comuni ad alcune scienze e princìpi comuni a tutte le scienze, questi ultimi sono:
- principio di non contraddizione: è quello in base al quale, in un determinato contesto, non possiamo affermare di una data realtà una cosa ed il suo contrario, non possiamo cioè attribuire predicati contrari ad uno stesso soggetto. Ad esempio, non si può affermare nello stesso tempo e dallo stesso punto di vista che Socrate è “vivo” e “non-vivo”. E’ il principio fondamentale del sapere ed ha un significato allo stesso tempo logico e ontologico. Sul piano logico indica che in una determinata realtà non si può affermare qualcosa e allo stesso tempo il suo contrario (“è impossibile che la stessa cosa insieme inerisca e non inerisca la medesima cosa e secondo il medesimo rispetto”), non si può dire ad esempio “piove” e “non piove” rispetto a questo preciso luogo e un momento. Sul piano ontologico, indica che una data realtà non può essere e allo stesso tempo non essere una determinata cosa, (“è impossibile che una stessa cosa sia e insieme non sia”), non può essere quindi, che in questo luogo e momento “piova” e “non piova” allo stesso tempo. Il principio non è dimostrabile (perché è “primo”) e si può confutare chi lo nega, perché chiunque fa affermazioni non può non utilizzarlo.[3]
- principio di identità: ogni concetto è uguale a sé stesso (“A” è “A”)
- principio del terzo escluso: “è necessario affermare o negare, di un medesimo oggetto, uno solo dei contraddittori, qualunque esso sia”: una cosa, infatti, o è “A” oppure è “non-A”; per far riferimento all’esempio precedente di Socrate possiamo dire o che è vivo o che è non-vivo e non c’è una terza possibilità.
“I princìpi hanno un valore universale e necessario. Essi non possono essere dimostrati, ma grazie a loro si può confutare e respingere come non valida qualsiasi argomentazione che non li rispetti. Pur essendo delle premesse universali e costituendo quindi i princìpi chiave di ciascuna scienza, essi sono in sé indimostrabili. Se, infatti, fossero dimostrabili, lo sarebbero grazie ad un altro sillogismo, di cui sarebbero la conclusione. Ma anche questo avrebbe bisogno, a sua volta, di essere dimostrato e di dimostrazione in dimostrazione si andrebbe all’infinito e non vi sarebbero mai delle premesse assolutamente certe ed evidenti, quindi non sarebbe possibile avere alcuna valida base di partenza per il ragionamento deduttivo e non si potrebbe dimostrare nulla”.[4]
Questi princìpi saranno alla base delle riflessioni filosofiche successive.
Riferimenti:
[1] https://www.google.it/search?ei=w8BEW4XINMqjsAG66qK4Aw&q=aristotele+teoria+sul+linguaggio&oq=aristotele+teorie+sul+lingiaggio&gs_l=psy-ab.3.0.33i22i29i30k1.31215.46552.0.47856.38.33.2.3.3.0.274.5465.0j18j10.28.0….0…1c.1.64.psy-ab..5.30.5124…0j0i131k1j0i67k1j0i22i30k1j33i21k1j33i160k1.0.a3nJ-ETNM3c
[1] Gorgia, DK 82 B 3
[2] Cratilo, 388b, 438d-e, 439b
[3] M.De Bartolomeo, V.Magni, “Filosofia greca e filosofia romana”Atlas 2001, “testo 39”pag 144
[4] M.De Bartolomeo, V.Magni, “Filosofia
greca e filosofia romana”Atlas 2001, “testo 39”pag 144